Lo Sport e quella lealtà che non c’è mai stata

festa roseto 17Quando il barone francese De Coubertin fondò nel 1896 le Olimpiadi moderne, lo fece con uno scopo nobile e preciso: innalzare lo sport a collante delle nazioni, per un futuro fondato sull’uguaglianza, sulla libertà e sulla pace nel mondo. Non a caso il motto principale del barone era: “L’importante non è vincere, ma partecipare”. Oggi, dopo quasi 119 anni, questa frase ci fa venir da ridere a crepapelle: non ce ne voglia il compianto papà delle Olimpiadi, che di sicuro aveva nobili e sacri intenti, ma i Giochi così come qualsiasi altra competizione sportiva non sono mai stati e non saranno mai veicolo di buone intenzioni, privi di dietrologie, di interessi economici, politici e di tutto quello che un uomo puro di cuore (ammesso che ne esistano) non esiterebbe a definire “sporco”.

D’altronde la stessa prima edizione delle Olimpiadi, datata 1896, smentì sin da subito le intenzioni di De Coubertin: la Germania, famosa ai tempi per l’abitudine di forgiare guerrieri attraverso la ginnastica del suo movimento Turn, dopo qualche manfrina di rito venne ammessa ai Giochi dal CIO (Comitato Olimpico Internazionale), nonostante le proteste del buon barone. Il motivo? Prettamente geopolitico. Della serie: il buongiorno si vede dal mattino. Ma i Giochi che più di tutti destarono scandalo furono quelli di Berlino del 1936, passati alla storia con la tutt’altro che pacifica etichetta di “Olimpiadi naziste”. Hitler non era mai stato un grande amante dello sport: condannato nel 1924 a 5 anni di prigione, rifiutò ripetutamente le sfide degli altri detenuti perché per lui “lo sport più nobile era tenere alzato il braccio destro”. Nonostante questo, Hitler diede anima e corpo pur di organizzare le Olimpiadi e convincere il mondo intero che la Germania era cambiata, che non stava preparando la guerra e che la sua nazione era fra le più tolleranti di sempre. Un bello specchietto per le allodole: alla fine quelle Olimpiadi furono tutto tranne che rispettose degli ideali olimpici. Chiedere al mitico atleta di colore Jesse Owens, vincitore di quattro medaglie d’oro: Hitler non solo non gli volle stringere la mano, ma protestò per la sua partecipazione perché “i neri sono animali: è come se io facessi gareggiare il mio cavallo!”.

L’Italia di quegli anni non fu da meno, anzi: si potrebbe tranquillamente dire che Hitler avesse studiato Mussolini e innalzato ai massimi storici il suo intento di sfruttare lo sport per fini propagandistici. Innanzitutto il CONI aveva trascorso la sua adolescenza in mano ai fascisti, con lo scopo di farne il vertice di una piramide la cui funzione era controllare tutte le federazioni e le società sportive, per adeguarle a quelli che erano gli ideali mussoliniani: lo sport visto come forma di controllo delle masse e come motore della creazione del cosiddetto “Italiano nuovo”, una macchina tarata per il sacrificio nel nome della propria bandiera. Gli stessi Mondiali del 1934, poi vinti dalla Nazionale guidata da Vittorio Pozzo, furono organizzati sull’idea che l’Italia dovesse a tutti i costi dimostrare di possedere un esercito in grado di annientare qualsiasi avversario. A cominciare dal rettangolo verde, ovvio.

Lo sport era guerra, senza se e senza ma: non a caso, gli sport di squadra si trasformavano spesso in regolamenti di conti in stile selvaggio West. Lo imparò presto la nazionale degli USA durante le già citate Olimpiadi del 1936: squadra sorprendentemente frizzante e in grado di non far vedere palla ai campioni italiani, venne “domata” a calci, pugni e gomitate. Due giocatori finirono in ospedale e, quando il centravanti italiano Achille Piccini (che tanto “piccino” non era) rifilò l’ennesimo pugno al malcapitato di turno, l’arbitro tedesco gli intimò di lasciare il campo: a quel punto i giocatori italiani lo circondarono, gli immobilizzarono le braccia e gli tapparono la bocca. L’arbitro, terrorizzato, lasciò in campo Piccini e l’Italia vinse 1-0. Winston Churchill, che stupido di certo non era, l’aveva detto: “Gli italiani perdono le guerre come se fossero partite di calcio, e le partite di calcio come se fossero guerre”. Di certo non eravamo gli unici: sempre durante quelle Olimpiadi i tifosi peruviani, stanchi del pareggio, entrarono in campo armati di pistole, minacciando di morte i giocatori austriaci che, ovviamente, smisero di giocare permettendo al Perù di segnare due gol a porta vuota.

Ma lo sport non è solo guerra e propaganda. Lo sport, oggi come ieri, è innanzitutto un affare economico, una macchina che macina soldi e che per questo va “oliata” a dovere, di tanto in tanto: noi italiani, che sul campo abbiamo vinto di tutto, nel calcio così come negli altri sport, siamo esperti anche nel magnifico gioco delle combine. Dal 1927 al 2005 son passati ben 78 anni, eppure queste due date sono passate alla storia per lo stesso motivo: la revoca di uno scudetto. Nel 1927 toccò al Torino, il cui scudo fu revocato a causa di un accordo fra il dirigente granata Nani ed il terzino bianconero Allemandi, che ricevette 25.000 lire per far perdere i bianconeri nel derby: la combine venne smascherata dal giornalista de “Lo Sport” Farmirelli, che ascoltò casualmente la conversazione fra i due dal muro della sua camera d’albergo, adiacente al luogo del delitto: quando si dice la sfiga. Di quello revocato alla Juventus nel 2005, effetto collaterale di Calciopoli, è inutile parlarne: tutti voi conoscete la storia della triade Moggi-Giraudo-Bettega.

Ma l’enorme giro di denaro che si cela dietro al calcio ha fatto scoppiare bubboni altrettanto pestilenziali, riguardanti un’altra piaga del nostro sport preferito: il calcioscommesse. Tutto cominciò nella primavera del 1980, quando la magistratura invase letteralmente i campi arrestando calciatori in serie: era ufficialmente nato lo scandalo noto col nome di “Totonero”. La cosa non saltò fuori grazie ad un giornalista, un dirigente o un supereroe: fu il signor Cruciani, fornitore di ortofrutta, a denunciare alla procura una truffa che lo vide coinvolto. Cruciani, in parole povere, aveva scommesso centinaia di milioni fidandosi di un ristoratore che vantava contatti con la Lazio, e che gli aveva fornito una lista di risultati adeguatamente combinati: il fatto che molti di quei milioni fossero stati persi a causa di risultati non corrispondenti, lo spinse a denunciare una truffa di cui lui stesso era complice. Alla fine pagò più di tutti il Milan di Colombo, con la retrocessione in B. Qualche anno dopo la storia si ripeté: nel 1986 nacque il “Totonero-bis” ed in B, stavolta, ci finì l’Udinese. L’ultimo filone del calcioscommesse riguarda il 2011, lo “Scommessopoli” di Stefano Bettarini: anche questa è storia nota e recente.

Ultima ma non ultima, la questione del doping: il sospetto che alcuni atleti si “pompassero” facendo uso di sostanze proibite scoppiò nel 1960 quando uscì la voce che il grande Helenio Herrera, appena arrivato all’Inter, facesse ingerire ai propri calciatori una misteriosa bustina prima di scendere in campo. Quella bustina, per la cronaca, conteneva bicarbonato. La psicosi del doping era però scoppiata: i controlli erano rudimentali e ben presto la Federcalcio si rese conto che molti giocatori, per farla franca, usavano scambiarsi le provette o riempirle addirittura di the. Nel 1962 arrivarono le prime squalifiche, ma si era appena all’inizio. Nel marzo 1964, infatti, toccò al Bologna finire al centro delle polemiche: reduce da una vittoria a San Siro contro il Milan di Altafini, di Rivera, di Maldini e di Trapattoni, e dalla goleada contro il Torino, venne penalizzata di 1 punto e con lo 0-2 a tavolino contro i granata. Motivo? Ben 5 giocatori trovati positivi all’anfetamina. Il Bologna s’infuriò parlando di complotto e di sabotaggio: aveva ragione. Qualcuno (si mormora l’allenatore rossonero Gipo Viani) aveva alterato le famose provette. Un bluff che rappresentò un caso isolato perché tanti, purtroppo, sono i nomi famosi che han ceduto e continuano a cedere alle sostanze dopanti: Eddy Merckx, Ben Johnson, Marco Pantani, Peruzzi e Carnevale con addosso il Lipopil, Maradona e la cocaina, Contador, Marion Jones,  il recente caso di Alex Schwazer, tutti nomi che negli anni hanno animato una questione delicatissima.

Si potrebbe continuare all’infinito, ma il rischio di annoiare diventerebbe una certezza. Scegliamo di chiudere, così come avevamo cominciato, con una frase di De Coubertin: “Chiedo solo una cosa: la lealtà sportiva”. Chissà se qualcuno gli darà mai ascolto.

Gabriele Li Mandri – dott. In Comunicazione, Editoria e Giornalismo.festa roseto 5

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