L’atroce pratica della infibulazione

Una pratica antichissima, che è stata tollerata a lungo sia dall’Islam sia dal Cristianesimo, ma che adesso inizia a essere sempre meno accettata: l’Onu ha inserito la sua abolizione entro il 2030 tra gli Obiettivi di sviluppo sostenibile.

Si stima siano 200 milioni le donne e le adolescenti che hanno subito mutilazioni parziali o totali dei genitali femminili.

L’infibulazione è il controllo della sessualità femminile ed è una vera e propria violenza che consiste nell’asportazione del clitoride, delle piccole labbra, di parte delle grandi labbra vaginali con cauterizzazione, cui segue la quasi totale cucitura della vagina a parte un piccola apertura che permette la fuoriuscita dell’urina e del sangue mestruale. Dopo l’operazione le gambe vengono legate per accelerare il processo di chiusura. Tutta la struttura dell’apparato genitale femminile esterno viene mutilata.

Oltre all’infibulazione, termine che deriva dal latino “fibula”, spilla, si hanno altre mutilazioni genitali femminili come la “clitoridectomia” che consiste nell’asportazione del clitoride.

L’infibulazione ha un acronimo inglese “mgf” e un unico significato: la perdita dell’identità; è una mutilazione genitale femminile, praticata in molti paesi africani e asiatici (28 in tutto il mondo) attuata per impedire alle donne di avere rapporti sessuali. 30 paesi praticano questa barbarie a cui l’Italia non è immune e dove il fenomeno è presente illegalmente. Il problema è allarmante poiché non sono rari i casi di ragazze che durante le vacanze vengono portate dai parenti nei loro paesi di origine dove sono sottoposte a tale mutilazione: il numero di mutilazioni genitali femminili si attesterebbe tra le 46mila e le 57mila.

L’infibulazione viene effettuata di solito in giovane età, tra la prima infanzia e i 15 anni. Tra le adulte, l’incidenza maggiore si riscontra in Somalia (98 per cento delle donne tra i 15 e i 49 anni), in Guinea (97 per cento) e a Gibuti (93). Sono invece ben 44 milioni le bambine sotto i 14 anni mutilate; i paesi in cui questo accade di più sono il Gambia (56 per cento delle bambine), la Mauritania (54 per cento) e l’Indonesia (circa metà).

Sono pratiche tradizionali, imposte per convenzione sociale anche se non sono ufficialmente prescritte da nessuna religione: vengono ritenute indispensabili per preparare una bambina alla vita adulta, preservandone la purezza e la modestia associate alla verginità prematrimoniale e alla fedeltà coniugale. Molte bambine avranno danni neurologici dovuti al dolore provato; molte muoiono di emorragia dopo la mutilazione; molte di infezione; molte ragazze di parto, perché il tessuto cicatriziale è rigido, e impedisce la nascita del feto. Le bambine non corrono più come prima, perché il taglio si potrebbe riaprire. E il giorno delle nozze il marito taglierà di nuovo la cicatrice prima dell’amplesso, o durante. In alcuni paesi come la Somalia dopo ogni parto si reinfibula la puerpera, e poi ancora e ancora, dopo ogni figlio e prima del prossimo rapporto col marito.

Si ha così un controllo totale della vita della donna che in questo modo viene resa pura perché allontanata anche fisicamente da ogni pratica sessuale, compresa la masturbazione. Si limita ogni attività sessuale della donna, la si condanna a una vita di dolore, la si mette in pericolo sia nel corso dell’operazione che nel resto della vita, specie in un momento così delicato come il parto.

Essendo una pratica culturale, è difficile riuscire a scardinarla: l’infibulazione viene intesa come un rito di passaggio necessario per l’accettazione delle donne nel gruppo sociale in cui vivono. Le stesse donne che appartengono a queste culture di solito non rifiutano l’infibulazione, anzi, sono complici nel trasmetterla alle figlie. La mutilazione genitale non viene praticata dagli uomini alle donne: sono le donne stesse a praticarla ad altre donne. Madri che sacrificano, ad una tradizione imposta dai padri, il benessere e la serenità delle loro bambine: intrise di valori patriarcali, considerano se stesse “degne” solo se la vulva è cucita. Alle bambine che piangono viene detto di smetterla, di non gridare, altrimenti non “degne del padre”.
La tradizione culturale porta le donne stesse a non considerare questa pratica un’orrenda mutilazione, ma un rito di iniziazione, il passaggio che le fa diventare donne. Esiste una pressione culturale così forte da spingere le bambine ad attendere impazienti il momento in cui verranno “ripulite”: una donna non infibulata è considerata “impura”.

L’Italia, come tutta l’Unione Europea, ha messo in atto una politica di prevenzione e contrasto del fenomeno, con un’intesa tra ministero della Salute, Istruzione ed Esteri per arginarlo. Fondi europei e italiani vanno anche alle operazioni portate avanti dall’Onu nei paesi d’origine che mirano a cambiare l’aspetto culturale delle infibulazioni, informando sui pericoli anche mortali a cui le donne vanno incontro.

Lo scorso 6 febbraio è stato il giorno dedicato alla denuncia delle mutilazioni genitali femminili: diversi eventi hanno preso il via in Italia per celebrare la giornata con la mobilitazione di ActionAid e con la presentazione della nuova piattaforma web di Aidos: “Insieme per porre fine alle mutilazioni genitali femminili”.

La battaglia, però, è ancora lunga e non ci si può tirare indietro; come diceva Thomas Sankara, il Presidente del Burkina Faso: “L’infibulazione è un tentativo di conferire alle donne uno status di inferiorità, marchiandole con un segno che le svaluta ed è un continuo ricordar loro che sono solo donne, inferiori agli uomini, che non hanno alcun diritto sui propri corpi o ad una realizzazione fisica o della persona”.

 

Valentina G.

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