La pena detentiva deve tendere alla rieducazione del condannato

anas san filippoIl lavoro costituisce lo strumento principale del trattamento penitenziario avente come fine ultimo la rieducazione e la risocializzazione del condannato in attuazione del disposto costituzionale secondo cui le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato” (art. 27 terzo comma).

Nei principi dettati dalla Carta Costituzionale si concretizza una evoluzione del concetto di sanzione penale: la pena detentiva, oltre a rappresentare un provvedimento repressivo, afflittivo, proporzionato alla gravità del reato inflitto al soggetto dotato di capacità di intendere e di volere, deve tendere alla rieducazione del condannato (art. 27, secondo comma).

Alla luce di tale principio, l’attività lavorativa del condannato negli istituti penitenziari ha sempre di più assunto una connotazione di strumento diretto a stimolare un positivo cambiamento nella vita di quest’ultimo. Il lavoro carcerario è una prassi diffusa in tutti i paesi del mondo civile. In generale tutti i carcerati delle nazioni considerate civilizzate possono accedere al lavoro ed in alcuni paesi ne hanno l’obbligo, come ad esempio negli Stati Uniti d’America.

 

Il lavoro carcerario svolge una funzione normalizzatrice e correttiva, poiché:

– sottrae i detenuti alle conseguenze negative dell’ozio;

– favorisce il loro trattamento rieducativo.

– offre loro la possibilità di ricavare un guadagno, col quale soddisfare le loro necessità e sussidiare la famiglia.

 

Il lavoro è retribuito con uno stipendio proporzionale alla quantità e alla qualità del lavoro prestato.

Tale somma non può essere inferiore ai due terzi del trattamento economico previsto dai contratti collettivi di lavoro. L’ammontare è stabilito da una commissione così composta: Capo Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, Direttore dell’Ufficio del lavoro dei detenuti e degli Internati della Direzione generale per gli Istituti di prevenzione e pena, Ispettore generale, Rappresentante del Ministero del Tesoro, Rappresentante del Ministero del lavoro e da un Delegato per ciascuna delle più rappresentative organizzazioni sindacali.

I detenuti ammessi al lavoro all’esterno vi si recano senza scorta, a meno che particolari ragioni di sicurezza non facciano disporre diversamente; poiché non avrebbe senso autorizzare soggetti ritenuti pericolosi o non affidabili, non possono essere ammessi al beneficio del lavoro all’esterno i detenuti e gli internati per uno dei delitti indicati nell’art. 4-bis della Legge n. 354/75 (reato associativo di tipo mafioso, sequestro di persona a scopo di rapina o di estorsione, associazione finalizzata a favorire l’immigrazione clandestina, rapina con modalità mafiose, estorsione, ecc.).

Nel 2004 il Dap, Dipartimento Amministrazione Penitenziaria, fa partire una sperimentazione: in dieci carceri italiane (su un totale di 205) la gestione delle cucine viene affidata a cooperative che fanno lavorare i detenuti. Detenuti, che prima svolgono specifici corsi di formazione professionale. Si mangia meglio e l’igiene migliora nettamente; centinaia di detenuti imparano un lavoro e prendono un regolare stipendio con il quale si pagano il soggiorno in carcere, le spese legali, i risarcimenti alle vittime e le tasse.

Accanto alle mense nascono, nelle stesse carceri, altri reparti di produzione: di panettoni a Padova, di taralli a Trani o di dolci tipici a Siracusa e Ragusa.

La riuscita dell’esperimento è certificata dai direttori delle dieci carceri, che scrivono al Dap e al ministro di Giustizia definendo “Oltremodo positiva l’esperienza”; dallo stesso capo del Dap, Giovanni Tamburino, “Il giudizio è fortemente positivo: non si torna indietro».

Ma siccome la sperimentazione era decennale, il nuovo governo decide di abbandonare le cooperative e di tornare al vecchio sistema, limitato a «lavori domestici”: lavoretti sottopagati e portati avanti senza professionalità.

Il perché di questa decisione? I soldi.

Ma differentemente da quanto sostiene l’architetto torinese Cesare Burdese, membro della Commissione ministeriale insieme ad Annamaria Cancellieri, “Siamo diventati un Paese troppo povero per sostenere certi servizi di qualità”, il lavoro in carcere sarebbe un affare per lo Stato.

I dati dicono che ogni milione di euro investito se ne risparmiano nove”, dice Nicola Boscoletto della Giotto di Padova. “Il 70% dei detenuti che in carcere non hanno imparato un mestiere torna in galera; per chi invece ha imparato un mestiere, la recidiva è del 2%”.

 

I detenuti fanno biscotti, magliette, caffè, borse, stampe, oggetti di design, puntando alla qualità più che al profitto. Chi compra questi prodotti sa che aiuterà queste persone a fare un lavoro dignitoso, capace di alleviare uno stato di disagio. Si chiamano” Banda Biscotti”, le “Dolci Evasioni”, le “Lazzarelle”, “Sprigioniamo i sapori”, “Madeinjail” e molti altri: l’ironia non guasta a queste imprese che sviluppano buone pratiche di economia carceraria.

A Milano, a San Vittore, la cooperativa Alice, con il marchio “Gatti galeotti” fa grembiuli, shopper e cappelli con rimanenze di tessuti; il brand “Sartoria San Vittore” fa collezioni con stoffe di “prima mano”.

A Roma, a Rebibbia, la cooperativa sociale “Ora d’aria” dà lavoro a cinque detenute contrattualizzate che trattano pvc ricavato da striscioni pubblicitari, stoffe e anche bottoni: un’attività che si finanzia con la commercializzazione dei suoi prodotti in due negozi a Roma; tra questi, borse e cartelle per congressi di organizzazioni (dai sindacati alla Fao a un recente convegno della Conferenza episcopale italiana) e gadget come cappellini (per le Olimpiadi di Sochi).

Alla Casa circondariale di Torino opera “Uno di due” che occupa a tempo determinato tre detenute: i materiali per borse, shopper, pochette, contenitori, cestini e gadget provengono da pezze di industrie tessili, da campionari o da striscioni in pvc di grandi eventi.

In Puglia, nel laboratorio della Casa circondariale Borgo San Nicola di Lecce e a Trani, la cooperativa “Officina creativa” ha creato i marchi “Made in carcere” e “Second chance”: vi lavorano 20 donne e 15 uomini; realizzano borsette, borse per convegni, shopper, porta-Ipad, porta-chiavi, braccialetti, sciarpe e gadget. Il marchio è presente con i suoi prodotti anche all’estero tramite la catena di Eataly e, in altra forma, in punti vendita a Parigi e Toronto e presto a Barcellona.

Borse e portafogli in pelle di recupero (con l’impiego anche di sacchi del caffè in alluminio plastificato) e una linea di abbigliamento per bambini in tessuto di scarto proveniente da seterie locali sono i materiali utilizzati dai tredici detenuti (8 uomini e cinque donne) occupati in due distinti laboratori da “Impronte di libertà”, nella Casa circondariale di Como: attività che ha attirato l’attenzione di Intesasanpaolo che ha commissionato alla cooperativa i grembiulini da cucina che saranno utilizzati all’Expo di Milano.

 

In Italia l’intero sistema penitenziario grava sulle tasche dei cittadini per circa 2 miliardi e 800 milioni di euro l’anno. Mantenere ogni singolo detenuto in carcere costa allo Stato circa 4000 euro al mese. Sono cifre importanti che dovrebbero servire a reinserire nella società anche le persone che non hanno mai imparato un mestiere. Il problema è che, sempre secondo la legge, vanno retribuiti, però i soldi per pagarli non ci sono, allora si preferisce lasciarli oziare.

Esiste, poi, un’altra legge che permette di impiegarli gratuitamente in lavori di pubblica utilità, come la pulizia dei parchi, delle strade, dei muri, degli argini dei fiumi o del fango delle alluvioni; anche qui nulla si muove, perché dovrebbero essere i comuni a farne richiesta, ma i sindaci non sanno dell’esistenza di questa legge.

 

Valentina G.

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