Venerdì 27 gennaio è stato celebrato il Giorno della Memoria, commemorazione che ogni anno rinnova il cordoglio per la Shoah, una delle massime espressioni della distruttività umana.
Primo Levi sosteneva che conoscere l’Olocausto è necessario, ma comprenderlo è impossibile.
In Israele si celebra ogni anno un “Giorno in Memoria dell’Olocausto “: la giornata si apre con un suono di sirene e il popolo d’Israele si riunisce con le vittime e i sopravvissuti in un minuto di silenzio carico di tensione. Questo silenzio è un atto di ricordo e di intima unione, ma è anche un segno che, di fronte all’olocausto, nessuna parola potrebbe aver valore. Questo stesso silenzio vuole anche essere un grido, ed evoca il bisogno di combattere ancora una volta contro un male incomprensibile.
Le ricerche sulla psicologia dell’olocausto comprendono le ipotesi sul perchè le persone si siano rese partecipi del genocidio e le analisi degli effetti sui testimoni e sui sopravvissuti.
Per milioni di persone quel luogo significò la fine: per chi è vissuto in quel periodo, la guerra è rimasta un marchio indelebile, attraverso il quale misurare tutto il resto della vita; l’omicidio di massa di 6 milioni di persone, compresi 1 milione e mezzo di bambini, è rimasto nella memoria di tutti noi attraverso film, libri, poesie e soprattutto fotografie.
I leader nazisti pianificarono accuratamente l’eliminazione di tutti gli Ebrei europei e portarono a termine due terzi del loro obiettivo, con l’aiuto di migliaia di persone di paesi diversi: ma come possono, gli esseri umani, diventare così malvagi e degradarsi fino al punto di massacrare dei loro simili senza provare rimorso o rendersi conto dei loro atti?
Secondo studi condotti, un fattore coinvolto è il “pensiero di gruppo”, una combinazione di orgoglio comune, di conformismo e di culto del leader, che può spingere a decisioni tanto immorali quanto tragiche: i discorsi fortemente emotivi di Hitler, il contesto caratterizzato da enormi armate, da uniformi, musica marziale e simboli, contribuirono ad esercitare questi meccanismi su persone normali. Inoltre la presenza di un gran numero di persone che condividono una missione, e dove il singolo individuo scompare, facilita l’influenza a comportamenti impensabili.
Un altro fattore fondamentale è legato ai processi de ”l’assimilazione e del contrasto” dove venivano minimizzate le differenze all’interno dei gruppi ed estremizzate quelle con altri gruppi: tutto ciò rende più semplice vedere “gli altri” come cattivi e peggiori di “tutti noi”, facendosi l’idea che gli altri meritano le sofferenze che vengono loro inflitte.
Molti teorici della personalità hanno scoperto diversi meccanismi di difesa come “la scissione”, cioè la capacità di creare barriere cognitive ed emozionali in grado di dividere ciascuna parte di noi dall’altra: questo meccanismo è usato rispetto all’olocausto per spiegare come le persone la cui mansione era l’omicidio di massa, potessero tornare a casa dopo il “lavoro” e godersi una normale serata in famiglia.
Dall’altra parte, l’analisi psicologica riguarda l’adattamento, individuale e di massa, alla vita nel lager, caratterizzato da diversi fenomeni psicologici comuni ai detenuti: tra questi, la tendenza ad indulgere in fantasie irreali sulla vita dopo la liberazione, la regressione a comportamenti tali da tentare di ingraziarsi gli ufficiali ed evitare le punizioni e l’aggressività dei detenuti più anziani nei confronti dei nuovi arrivati.
Le loro indescrivibili esperienze non possono essere umanamente comprese, né spiegate in modo adeguato. Gli effetti di una impotenza assoluta e prolungata, mentre si è sottoposti ai trattamenti più crudeli, trovarsi costantemente di fronte alla propria morte e a quella dei compagni, il fumo dei forni crematori, la degradazione umana subita da parte delle SS, la fame e la sete, sono fatti che vanno al di là di qualsiasi teoria traumatica.
La separazione totale dal mondo esterno e la distruzione di schemi di riferimento agli standard della vita normale costituiscono qualcosa di più di uno shock psichico: essi minacciano e minano le stesse basi della psiche umana.
Quando, nel 1945, vennero distrutti i recinti intorno ai lager nazisti si disse che era finito un incubo.
Quel che era finito in realtà era l’incubo reale ma quel che iniziava era il dolore personale e i molti incubi che hanno tormentato, e che continuano a tormentare, le notti dei sopravvissuti alla Shoah.
L’esser stati spogliati della dignità di esseri umani e ridotti a null’altro che a numeri, a prede da inseguire, le ferite e i sensi di colpa dovuti a un periodo di vita vissuto in modo inumano hanno lasciato profondi segni nell’animo di questi uomini e donne.
La comunità scientifica per molto tempo non ha compreso la specificità delle sofferenze psicologiche legate alla Shoah, affacciandosi su questa materia solo molto tardi, e consecutivamente ha iniziato ad elaborare strumenti per porvi rimedio; fino agli anni ’70queste patologie venivano assimilate ai traumatismi di guerra (i cosiddetti PTSD, Post-traumatic stress disorders).
Per quanto riguarda gli effetti a lungo termine dell’olocausto sulle vittime si è parlato in psicologia di “sindrome del sopravvissuto”: essa include sintomi come il senso di colpa per essere sopravvissuti, rabbia e ansia, disturbi del sonno, flashback, ipervigilanza, depressione e incapacità a stabilire legami profondi.
Il trauma di questa esperienza estrema ha continuato, d’allora in poi, a condizionare la vita dei sopravvissuti dell’Olocausto e ad influire sulle loro relazioni con i coniugi e con i figli; nel 1945 non si prevedeva che gli effetti del trauma sarebbero dilagati oltre la generazione delle vittime e avrebbero coinvolto anche i figli.
I terapeuti che avevano in cura figli di sopravvissuti riportavano la sensazione di parlare con persone morte: questi figli avevano dentro di sé le voci e i gesti di morti, vivevano e sognavano gli incubi dei genitori.
La quantità di spazio psicologico che il passato del genitore occupa nell’esistenza attuale del figlio è tale che deve rinunciare al diritto di esistere nel proprio presente: il trauma non riguarda soltanto l’accaduto, gli avvenimenti in sé, ma anche le reazioni indescrivibili dei genitori allo sterminio di cui sono stati testimoni e che non hanno potuto impedire. Il figlio avverte il terrore, la vergogna e il senso di colpa dei genitori per un qualcosa che avrebbero dovuto impedire , senza esserci riusciti; finché non riesce a traghettare il genitore fuori dalla realtà dei campi di concentramento il figlio di un sopravvissuto non si sente autorizzato a vivere la propria vita.
Valentina G.