Solo chi appartiene alla casta dei guerrieri, riesce a sopravvivere dove si lavora, seriamente, con amore e dedizione grazie alle arti marziali.

10500379_518146994963611_4161761783132077254_nLe Arti Marziali, così come l’arte in genere, se non si colgono nella loro essenza, saranno considerate indubbiamente utili al corpo, ma svuotate di contenuto. L’arte, in genere, o la si comprende e la si ama o resta qualcosa da “sfoggiare”, così come un bel quadro, che pur trovando posto dentro le mura domestiche resterà sempre, qualcosa di incompreso. 
Chi non appartiene alla casta dei guerrieri, non riesce a sopravvivere in ambienti dove si lavora, seriamente, con amore e dedizione praticando nobili discipline come le arti marziali. Questo avviene per diversi motivi, prima tra tutti, perché le tecniche non si apprendono, ma vanno interiorizzate e meditate e non come molti credono, apprendendone i movimenti in poche settimane o in un mese: occorrono anni di lavoro, di pratica continua e di costante presenza spirituale e fisica. Il bushi, non va nel dojo, per apprendere questa o quella tecnica di autodifesa, giacché dopo pochi mesi la dimentica, ma allo scopo di capire i principi che animano le tecniche, cercando di perfezionarle, dopo averle acquisite. Infatti, lo scopo del guerriero è quello dell’alchimista, attraverso il lavoro di perfezione esteriore (tecnica), effettua un lavoro di perfezione inferiore (SE). Ciò avviene inconsciamente, giacché più si lavora, più il movimento si meccanizza, più il SE (inconscio) assimila il movimento nella purezza del suo aspetto, perfezionando, nel suo essere, l’operatore. Per chi non appartiene alla casta dei bushi, ciò potrebbe sembrare paradossale, ma per i bushi è naturale, anzi, essi lavorano per la perfezione dell’SE attraverso il perfezionamento della tecnica. Inoltre, per mezzo della tecnica pura essi estrapolano concetti etico-morali non enunciabili e non spiegabili, ma trasmissibili attraverso essa. Si riesce a cogliere il significato nella sua purezza senza che esso possa essere spiegato (1). L’allievo, a sua volta, dovrà trasmettere quanto appreso; ma, non sarà in grado lui stesso di spiegare situazioni e aspetti particolari che sente dentro di sé, se non attraverso la tecnica.
Tali valori etico-morali e sentimentali appartengono alla Tradizione e, come tale, saranno trasmessi in modo metafisico, attraverso la tecnica pura, simbolo dinamico e non, come avviene nello Shintoismo, da bocca ad orecchio, anche se il principio è lo stesso. Non avremo la presunzione di spiegare la filosofia delle arti marziali poiché, come già affermato, essa appartiene al mondo di coloro che «sentono» senza ascoltare, che «vedono» oltre la parola, di conseguenza non ci sono trattati che possono trasmettere principi non enunciabili. Ciò non vuol dire che tutti coloro che si avvicinano alle arti marziali saranno «illuminati». Lo saranno soltanto coloro che hanno una predisposizione (amore puro). Tanti i chiamati pochi gli eletti.
Come tutto, anche alle arti marziali ci si avvicina o per curiosità o per caso fortuito, non è rilevante; l’importante è, invece lo spirito con cui si continua a praticarle: se è quello di apprendere tecniche di autodifesa o se invece e quello di migliorare se stessi.
Il bushi, infatti, non ha come scopo la vittoria in battaglia, bensì la vittoria nella vita. Lo scontro fra due guerrieri non è uno scontro fisico, ma uno scontro tra due «KI»(2). Essi si fronteggiano per ore, senza muoversi, e ad un certo punto il perdente cederà alla la superiorità dell’ES dell’avversario, conseguentemente nel contendente perdente si noterà un crollo fisico e la consapevolezza che l’altro è più forte e che non avrebbe possibilità di sopravvivere in un combattimento. Un esempio sicuramente renderà più chiaro tale concetto. Spesso nei duelli i Samurai restavano giorni sul posto senza battere ciglio, il primo che cedeva dalla posizione immobile, era ed è considerato perdente. Ciò significava che l’altro aveva prevalso, ed il vincitore a 
quel punto abbandonava l’area di combattimento, rinunciava ad ammazzare l’avversario, poiché secondo la Tradizione, l’avversario è «sacro».
Lo sconfitto, senza uscire dall’area di combattimento, si girava verso il tramonto e si toglieva la vita (hara kiri). La gestualità è semplice, «io (il vincitore) non ti ammazzo, l’altro (lo sconfitto) che è un vero uomo, cosciente che avrebbe avuto un debito per tutta la vita verso il primo e che per potersi disobbligare avrebbe dovuto fargli da schiavo, rinunciando al suo status di guerriero, si uccide il nell’area di battaglia.
Ma, poiché i Samurai sono uomini liberi, lo sconfitto, non avrebbe potuto mai accettare di vivere da schiavo o con un debito, anche perché solo gli uomini liberi potevano raggiungere il pantheon degli eroi e non il purgatorio degli schiavi. Pertanto, preferiva morire in «battaglia», anche se con «hara kiri», o morte volontaria.
Per un giapponese morire in battaglia era il più grande onore, poiché gli avrebbe consentito di raggiungere ciò che difficilmente avrebbe raggiunto altrimenti.

(1 )Il bushido, Inozo Nitobe Ed. SannoKai 
(2) L’energia aurea dell’uomo

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