Polemiche internazionali sui primi provvedimenti del Presidente Usa

Uno dei primissimi provvedimenti Donald Trump, il neo-insediato presidente Usa, è un decreto che vieta l’ingresso negli Stati Uniti agli immigrati provenienti da paesi a maggioranza islamica; i Paesi imputati dal tycoon sono Iraq, Iran, Libia, Somalia, Sudan, Siria e Yemen.

Il Marocco, l’Arabia Saudita e le petromonarchie sono assenti da questa lista; Trump è un uomo d’affari che risponde alla legge “il profitto prima di tutto”, politica legata ai ricchi affari con gli Emiri del Golfo.

Difende il suo provvedimento, tenta di smorzare le polemiche e attacca i media e dopo giornate di proteste dagli aeroporti alla Casa Bianca, il presidente Usa ribadisce che il suo ordine esecutivo “non è un bando ai musulmani, non ha a che fare con la religione, ma con il terrore e il mantenimento della sicurezza del nostro Paese. Rilasceremo nuovamente i visti a tutti i Paesi una volta che avremo rivisto e completato le politiche più sicure nei prossimi 90 giorni. La mia politica è simile a ciò che fece il presidente Obama nel 2011 quando bandì i visti per i rifugiati dall’Iraq per sei mesi. I sette Paesi nominati nell’ordine esecutivo sono gli stessi identificati precedentemente dall’amministrazione Obama come fonti di terrore”.

Il caos del bando per gli immigrati si è trasformato in una battaglia legale, e quattro giudici donne guidano lo scontro: Ann Donnelly a Brooklyn, Leonie Brinkema in Virginia, Allison Burroughs e Judith Gail Dein in Massachusetts, hanno bloccato l’ordine esecutivo; successivamente sedici ministri della giustizia di 16 Stati hanno condannato il decreto impegnandosi a usare i loro poteri per contrastarlo.

Sabato scorso sono state arrestate 109 persone negli aeroporti americani, tra cui professori in viaggio verso congressi, famiglie di rifugiati, e anche un ottantenne cieco: provenivano dai sette Paesi banditi, da cui in realtà non veniva alcuno dei terroristi che hanno colpito gli Usa dall’11 settembre 2001. L’American Civil Liberties Union si è mobilitata per liberarli, sostenendo che il decreto viola la Costituzione.

La Casa Bianca continua a difendere il provvedimento. “Non c’è alcun caos”, ha assicurato il capo dello staff Reince Priebus, “325 mila viaggiatori sono entrati negli Usa e solo 109 sono stati fermati. Gran parte di loro sono stati rilasciati. Abbiamo ancora una ventina di persone che restano detenute”, ha sostenuto, prevedendo che saranno presto rilasciate se in regola. Priebus ha precisato che l’ordine non interesserà i detentori della green card, ma ha, tuttavia, ricordato che gli agenti di frontiera hanno il “potere discrezionale di detenere e interrogare i viaggiatori che arrivano da Paesi a rischio” alimentando così nuove incertezze. “Il nostro Paese” ha scritto su Twitter il Presidente Usa “ha bisogno di confini forti e di controlli estremi, adesso. Guardate quello che sta succedendo in tutta Europa e in tutto il mondo: un caos orribile”.

A livello internazionale, dure critiche sono arrivate dall’Europa, secondo cui la politica migratoria imposta dal repubblicano colpisce i fondamenti della democrazia; tra i primi a reagire il presidente francese, François Hollande, che ieri ha messo in guardia sul fatto che la democrazia implica il rispetto dei principi su cui si basa, in particolare l’accoglienza dei rifugiati. Il premier Paolo Gentiloni ha detto che una “società aperta, identità plurale e niente discriminazioni” sono i pilastri dell’Europa. In Germania, la cancelliera Angela Merkel si è detta convinta che la guerra decisa contro il terrorismo non giustifichi che si mettano sotto sospetto generalizzato le persone in funzione di una determinata provenienza o religione. Nel Regno unito, tradizionale alleato degli Usa e con massiccia immigrazione dai Paesi colpiti dal divieto, la reazione del governo è arrivata oggi dopo che la prima ministra Theresa May è stata duramente criticata per non essersi ancora pronunciata sull’argomento. Da Downing Street, May ha infine detto di non essere d’accordo con l’ordine di Trump e ha ordinato ai suoi ministri degli Esteri e dell’Interno di contattare gli omologhi americani per chiarire la situazione.

Dai Paesi colpiti dal divieto, la prima risposta è arrivata dal governo iraniano che ha definito la decisione di Trump un palese insulto ai musulmani nel mondo e ha annunciato l’applicazione del principio di reciprocità. Il Sudan ha convocato l’incaricato d’affari statunitense per protestare contro l’ordine, chiedendo a Washington di riconsiderare la decisione.

 

Valentina G.

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