Le emozioni delle Olimpiadi di Rio

Le Olimpiadi di Rio 2016 hanno calato il sipario.

Con la Cerimonia di chiusura e lo spegnimento del Braciere Olimpico, i Giochi danno l’arrivederci alla 32° edizione di Tokyo 2020.

Le Olimpiadi, però, non sono state sport: protagoniste indiscusse sono sempre le emozioni, sia per le storie che accompagnano gli atleti sia per i grandi gesti che passano alla storia.

La prima edizione delle Olimpiadi mai disputata in Sudamerica ha ospitato all’interno del villaggio olimpico più di 10.000 atleti provenienti da ben 206 nazioni partecipanti (fra cui ricordiamo gli atleti indipendenti e i rifugiati) che ci hanno fatto perdere il fiato con 306 gare disputate fra lo stadio Maracanã, il palazzetto Maracanazinho, le acque dell’oceano Atlantico di fronte ad Ipanema, l’Olympic Aquatics Stadium e la arene poco fuori la città per le partite di golf e tiro con l’arco.

Un evento magnifico, che ha permesso al nostro paese di guadagnarsi ben 28 meritatissime medaglie, un obiettivo molto ambizioso che i nostri atleti sono riusciti ad ottenere dopo anni di sacrifici e durissimi allenamenti.

Alle Olimpiadi di Rio de Janeiro, per la prima volta nella storia dei Giochi, ha partecipato una squadra di rifugiati: formata da 10 atleti scelti dal CIO (Comitato Olimpico Internazionale) di nazionalità siriana, sud-sudanese, etiope e congolese, rappresenta i circa 60 milioni di rifugiati nel mondo. Nonostante l’accoglienza calorosa del Maracanã durante la cerimonia d’apertura, il team dei rifugiati non ha, però, ricevuto la copertura mediatica che meritava; lo testimonia il fatto che alcuni di loro non compaiono mai negli scatti dei fotografi delle principali agenzie presenti a Rio. La maggior parte delle immagini che li riguarda sono, infatti, rintracciabili sui profili Twitter che hanno seguito la loro avventura: Refugee Olympic Team e Team Refugees.

Tra gli atleti delle Olimpiadi di Rio ci sono storie incredibili, che mettono in scena il coraggio e la tenacia di uomini e donne che hanno superato grandi difficoltà per tornare a essere degli sportivi e dei campioni, indipendentemente dal fatto che abbiano vinto o no delle medaglie:

  • Il tuffatore britannico Chris Mears, oro nel trampolino da 3 metri, nel gennaio del 2009 all’età di 16 anni, aveva contratto il virus di Epstein-Barr, lo stesso responsabile della mononucleosi e di alcuni tipi di linfoma, che gli aveva causato la rottura della milza. Ricoverato in ospedale era entrato in coma: i medici gli avevano dato il 5% di possibilità di sopravvivenza. Lui ce l’ha fatta e la passione per i tuffi l’ha portato, sette ani dopo, sul gradino più alto del podio.
  • Il canottiere del Sudafrica, Lawrence Brittain, argento nel due senza, due anni fa è stato diagnosticato il linfoma di Hodgkin, il cancro ai linfonodi.
  • La nuotatrice americana Kathleen Baker, argento nei 100 metri dorso, deve convivere con il Morbo di Crohn, una malattia rara e autoimmune che rende difficile la vita di tutti i giorni.
  • Santiago Lange, 55 anni, è sopravvissuto a un cancro ai polmoni e a Rio è diventato campione olimpico, vincendo l’oro nella vela, nella classe mista Nacra 17.
  • L’italiana Valentina Truppa poco più di un anno fa andò in coma dopo una brutta caduta da cavallo.
  • La più giovane atleta, la 13enne nepalese Gaurika Singh, che ha gareggiato nei 100 dorso, era a Katmandu con la sua famiglia quando il 15 aprile 20125 c’è stato il terribile terremoto che ha causato circa 9.000 vittime.
  • Moaurad  Laachraoui, campione europeo di taekwondo, il cui cognome è noto alle cronache perché il fratello è stato uno degli attentatori kamikaze che si sono fatti esplodere all’aeroporto di Bruxelles. Ha dichiarato: “E’ terribile quello che ha fatto ma sono più arrabbiato con chi l’ha portato a farlo”.
  • Rafaela Silva, cresciuta nelle favelas di Cidade de Dues, entrata in un progetto dedicato ai giovani delle favelas, ha cominciato la sua carriera di judoka che l’ha portata a vincere la medaglia d’oro nella categoria 57 kg.
  • Ha 62 anni l’atleta più anziana dei Giochi di Rio, Julie Brougham, neozelandese, e la sua specialità è il dressage. Queste sono le sue prime Olimpiadi.
  • Una delle componenti della squadra dei rifugiati la siriana Yusra Mardini, che ha gareggiato nei 100 stile libero e nei 100 farfalla, è fuggita dalla Siria con la sorella si è imbarcata su una delle tante carrette del mare in cui erano stipate venti perone mentre ne poteva contenere solo sette. In prossimità dell’isola di Lesbo la barca si ferma e Yusra si getta in mare e la spinge fino a quando la costa non è vicina.

Alcune medaglie sono storiche, altre simboliche: ma significative sono le medaglie il cui peso è andato al di là dell’aspetto sportivo:

  • Kimia Alizadeh Zenoorin è entrata nella storia dei Giochi conquistando il bronzo nel taekwondo, categoria 57kg: la diciottenne è diventata la prima donna iraniana a vincere una medaglia alle Olimpiadi, combattendo e ricevendo la medaglia sul podio col capo coperto.
  • Il Porto Rico che sta attraversando un periodo fatto di scontri e omicidi ha registrato un giorno nel quale non ci sono stati omicidi: è quello nel quale Monica Puig, 23 anni, ha battuto Angelique Kerber nella finale del torneo femminile di tennis. Un oro storico, il primo per Portorico, che ha incollato ai teleschermi un intero paese.
  • Il primo, storico, oro olimpico per Singapore è arrivato a Rio 2016 grazie a Joseph Schooling, 21 anni, che ha sconfitto il proprio mito, Michael Phelps: nel 2008 si era fatto fotografare proprio con Phelps e otto anni dopo, nuotando i 100 delfino ha conquistato una vittoria leggendaria, mettendosi alle spalle il campione americano.
  • Sulle isole Fiji un popolo di quasi un milione di persone è letteralmente impazzito di gioia per la prima medaglia olimpica della propria storia: un oro nel rugby a 7.
  • Simone Manuel, ha vinto l’oro nei 100 stile libero, poi bissato da quello nella 4×100 mista (oltre a due argenti: 4×100 sl e 50 sl), diventando la prima atleta afroamericana a vincere nel nuoto alle Olimpiadi.
  • Majlinda Kelmendi, originaria di Pejë, ha battuto nella finale per l’oro l’azzurra Odette Giuffrida nel judo 52 kg: un oro storico perché Majlinda ha regalato la prima medaglia e il primo oro alla sua nazione.
  • All’impianto dei tuffi, He Zi, tuffatrice cinese, dopo aver vinto l’argento ha visto arrivare, ai piedi del podio, il proprio fidanzato, il tuffatore Qin Kai il quale si è inginocchiato, le ha porto un anello e le ha chiesto di sposarlo. Lacrime, emozione, il sì, l’abbraccio. Ma anche nel rugby a 7 femminile si era vista una scena analoga: la responsabile dei volontari ha chiesto alla giocatrice del Brasile Cerullo di sposarla, con tanto di bacio in barba ai pregiudizi.
  • I due fratelli inglesi Alistair e Jonathan Brownlee hanno vinto rispettivamente oro e argento nel triathlon: Alistair si è fermato qualche metro prima della fine, sventolando la bandiera britannica e aspettando per alcuni istanti il fratello, prima di tagliare il nastro di vincitore e poi abbracciarsi con Jonathan.
  • L’israeliano Or Sasson era balzato alle cronache perché al termine del proprio incontro di judo aveva porto la mano all’avversario sconfitto e l’egiziano Islam El Shehaby si era rifiutato di stringerla. Un gesto eclatante da parte dell’egiziano, dettata da motivi politici riguardanti la questione mediorientale. Gli ufficiali olimpici hanno escluso El Shehaby dai Giochi, mentre Sasson ha proseguito la propria marcia, mettendosi al collo un bronzo storico.
  • Braccia incrociate, stile manette per Feysa Lilesa, etiope medaglia d’argento nella maratona. Non potrà tornare in patria: quel gesto mostrato a tutto il mondo gli costerà caro perché le manette avevano un forte valore simbolico come gesto di protesta nei confronti del governo dell’Etiopia, colpevole di bersagliare la popolazione Omoro, un gruppo etnico che vive al confine con il Kenya: “Ci ammazzano, ci mettono in prigione. Le persone spariscono: molti membri della mia famiglia non ci sono più, compreso mio padre”, ha spiegato Lilesa.

Ma ci sono anche grandi storie di atleti che sono rimasti anche se non hanno vinto: per tenacia, per sfortuna o perché hanno incarnato il Vero Spirito Olimpico.

Le Olimpiadi sono ricche di storie di atleti che non hanno vinto medaglie (o che non hanno vinto l’oro) e che sono ricordati come e più dei vincitori: perché hanno fatto gesti di grande sportività sacrificando il proprio piazzamento per aiutare un altro atleta, oppure perché hanno dimostrato grande tenacia e perseveranza arrivando a competere con avversari molto più forti di loro, oppure perché hanno dimostrato grandi meriti sportivi ma hanno avuto molta sfortuna:

  • A quattro giri dalla fine, la neozelandese Nikki Hamblin e la statunitense Abbey D’Agostino si sono scontrate e sono cadute: prima D’Agostino ha aiutato Hamblin a rialzarsi, poi quando hanno ripreso a correre è stata D’Agostino ad accasciarsi di nuovo per il dolore e Hamblin si è fermata per convincerla ad alzarsi e finire la gara. Le due atlete hanno ricevuto unanimi complimenti per la loro sportività e generosità e nonostante siano arrivate ultime nella loro batteria, entrambe sono state ammesse eccezionalmente alla finale dei 5000 metri.
  • Lawrence Lemieux, velista canadese che partecipò alla gara della classe Finn alle Olimpiadi di Seul del 1988, era secondo a metà della quinta regata della gara: un piazzamento che gli avrebbe dato ottime possibilità di vincere una medaglia. Contemporaneamente si stavano svolgendo le regate della classe 470 maschile e femminile, le condizioni meteo erano pessime e c’era il mare mosso e molto vento: ad un certo punto Lemieux vide che l’imbarcazione di Singapore che stava partecipando alla classe 470 si era rovesciata, e che i due velisti dell’equipaggio erano in difficoltà, così lasciò la sua gara e navigò verso la barca di Singapore, salvando entrambe i membri dell’equipaggio. Poi ritornò alla sua regata arrivando 22esimo.  Il Comitato Olimpico Internazionale però decise di dargli la medaglia Pierre de Coubertin, che si assegna agli atleti che interpretano il “vero spirito sportivo”.
  • Il corridore britannico Derek Redmond era arrivato alla semifinale dei 400 metri alle Olimpiadi di Barcellona del 1992 tra i più in forma: partì bene, ma dopo circa 150 metri ebbe uno strappo muscolare alla coscia. Cadde a terra e i medici si avvicinarono per portarlo via in barella. Lui però si rialzò perché voleva finire lo stesso la gara e cominciò a zoppicare verso il traguardo; suo padre superò la sicurezza e lo raggiunse sulla pista per aiutarlo a concludere la corsa. Redmond venne squalificato dalla gara, ma della sua storia si parlò molto e suo padre fu uno dei tedofori alle Olimpiadi di Londra 2012.
  • Dorando Pietri, che era alto solo un metro e sessanta e pesava 60 kg, partecipò a molte importanti gare e si qualificò per la maratona di Atene del 1906. Al 25esimo chilometro era primo con cinque minuti di vantaggio sul secondo corridore, ma si dovette ritirare perché non stava bene. Ci riprovò alle Olimpiadi di Londra del 1908: cominciò lentamente per conservare le energie e verso metà gara cominciò a recuperare posizioni sugli altri atleti. Pietri si portò nelle prime posizioni, e verso la fine seppe che il primo della gara, il sudafricano Charles Hefferon, stava mollando: a due chilometri dall’arrivo lo superò, ma essendo stanchissimo cominciò a correre sulla pista nella direzione sbagliata. Pietri impiegò dieci minuti a percorrere gli ultimi 300 metri, finché tagliò il traguardo per primo. Secondo arrivò l’americano John Hayes, che fece reclamo contro gli aiuti ricevuti da Pietri nello stadio: venne accolto, e la medaglia d’oro venne assegnata a Hayes. Pietri, proprio per la sua mancata vittoria, diventò una celebrità in tutto il mondo.
  • Michael “Eddie” Edwards nel 1988 aveva cominciato come sciatore di discesa, con risultati solo discreti, e si era dedicato al salto con gli sci per riuscire a qualificarsi per un’Olimpiade. A Calgary la nazionale italiana gli prestò un paio di sci adatti a un’Olimpiade, e quella austriaca un casco. Arrivò ultimo in entrambe le gare a cui partecipò, e in tutte e due il penultimo classificato fece il doppio dei suoi punti. Attirò però molte attenzioni da parte dei media, che gli diedero il soprannome di “Eddie l’aquila”, ma guadagnò soprattutto le simpatie del pubblico, che apprezzava la sua tenacia e il fatto che, come diceva nelle interviste, era alle Olimpiadi perché ci teneva a partecipare e non a vincere.
  • I due velisti croati Pavle Kostov e Petar Cupac arrivarono 17esimi nella gara della classe 49er alle Olimpiadi di Pechino 2008, e non si qualificarono per la regata finale che assegnava le medaglie. Mentre erano al villaggio olimpico, sentirono che prima della regata finale si era rotto l’albero della barca della squadra danese, che era prima in classifica generale. Kostov e Cupac corsero verso il molo dove partiva la regata, prepararono la loro barca e la prestarono alla squadra danese, che riuscì a partire con 4 minuti di ritardo rispetto agli altri concorrenti: la barca danese arrivò settima nella regata, un piazzamento che bastò a fare vincere loro la medaglia d’oro. A Kostov e Cupac fu consegnata la medaglia De Coubertin.
  • Una delle storie più famose della storia di Olimpiadi è quella della nazionale giamaicana di bob, che partecipò per la prima volta alle Olimpiadi invernali nel 1988 a Calgary. La squadra era stata messa insieme dall’allenatore americano Howard Siler dopo un’idea di George Fitch che assistette ad una gara di velocità su dei carretti tradizionali, e capì che era possibile mettere insieme una squadra di bob. La squadra, messa insieme con dei provini, si qualificò alle Olimpiadi di Calgary: gli atleti però non erano abituati a gareggiare sul ghiaccio e al freddo, e vennero aiutati e consigliati dalle squadre delle altre nazionali. Durante una delle qualificazioni alle Olimpiadi, uscirono dalla pista e non conclusero la gara ma divennero però famosissimi in tutto il mondo, e parteciparono anche alle Olimpiadi invernali del 1992 e di Albertville e del 1994 a Lillehammer, dove ottennero uno storico 13esimo posto, davanti a Stati Uniti, Russia e Italia. La squadra non si qualificò alle Olimpiadi invernali del 2006 a Torino e a quelle di Vancouver del 2012, ma la squadra del bob di coppia partecipò a quelle di Sochi del 2014. FIAT dedicò agli atleti giamaicani diversi spot.
  • Alle Olimpiadi del 1936 a Berlino, il tedesco Luz Long era uno degli atleti più attesi: campione europeo doveva sfidare il campione del mondo, l’americano Jesse Owens. Alle qualificazioni, Luz fece il salto migliore, che diventò anche il record olimpico. Owens invece fece due salti nulli sui primi due tentativi: gliene era rimasto uno e doveva saltare almeno 7,15 metri. Long consigliò di fare un segno per terra qualche centimetro più indietro rispetto alla linea, e di usare quello come punto di riferimento per saltare. Owens saltava molto più di 7,15 metri, e doveva solo trovare un modo sicuro per non fare un nuovo salto nullo: ci riuscì, e si qualificò alle finali. Si svolsero nel pomeriggio, e Owens vinse l’oro e Long l’argento.
  • Eric Moussambani diventò famoso alle Olimpiadi di Sydney del 2000, quando si guadagnò la fama di “peggior nuotatore di tutti i tempi”. Partecipò a una gara di qualificazione dei 100 metri a stile libero, nella quale gli unici altri due concorrenti furono squalificati per falsa partenza. Moussambani era arrivato lì praticamente per caso: non era un nuotatore ma un pallavolista; non aveva mai visto una piscina olimpionica in tutta la vita e aveva imparato a nuotare appena 8 mesi prima, da solo. Moussambani era riuscito a partecipare alle qualificazioni per le gare olimpiche grazie a un programma speciale riservato agli atleti originari dei paesi in via di sviluppo. Alla gara di qualificazione doveva, così, gareggiare da solo e sperare di fare il miglior tempo possibile. L’entrata in acqua non fu spettacolare e i primi 50 metri riuscì a farli decentemente: il suo stile non somigliava affatto a quello dei professionisti ma se la cavò. Durante l’ultima vasca era stremato e sembrava sul punto di fermarsi, mentre il pubblico lo acclamava tentando di fargli coraggio. Moussambani concluse la prova in 1′ 57″52, il tempo più lento della storia delle Olimpiadi. “Non sono mai stato così stanco in tutta la mia vita. Non ero neppure mai stato in una piscina così grande in tutta la mia vita”, raccontò ai giornalisti a fine gara “ma tutti facevano il tifo per me ed è stato come vincere una medaglia d’oro”.

 

Valentina G.

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