L’assoluzione di Mannino “per non aver commesso il fatto ” e l’amarezza dei pm di Valentina G.

calogero_manninoCalogero Mannino è stato assolto “per non aver commesso il fatto”.

Così il gup Marina Petruzzella ha scagionato l’ex ministro Dc dall’accusa di aver avviato all’inizio del 1992 la trattativa fra pezzi dello Stato e i vertici di Cosa nostra, sollecitando la sua condanna a 9 anni.

Mannino, nella ricostruzione della procura, temendo per la sua incolumità e grazie ai suoi rapporti con l’ex capo del ros Antonio Subranni, nel ’92, avrebbe fatto pressioni sui carabinieri perché avviassero un “dialogo” con i clan. In cambio si sarebbe adoperato per garantire un’attenuazione della normativa del carcere duro.

L’ex ministro si è sempre difeso negando ogni coinvolgimento nelle vicende che gli sono state contestate.

 

“Sono vittima di alcuni pubblici ministeri che stanno continuando una linea politica impartita dalla convergenza di interesse tra una parte del partito comunista e la magistratura” afferma Calogero Mannino dopo l’assoluzione “Spero che sia stata data la parola fine. Una decisione coraggiosa che conferma la mia fiducia nella giustizia. Che non significa fiducia nell’accusa. I pm si sono accaniti contro di me”.

La pubblica accusa era rappresentata dai pm Nino Di Matteo, Vittorio Teresi, Roberto Tartaglia e Francesco Del Bene e Mannino non risparmia pesanti critiche ai pm che l’hanno processato: “Il pm Di Matteo, nel processo per la strage di via d’Amelio ha fatto condannare persone innocenti per colpa della sua ostinazione. Forse con me voleva fare lo stesso”.

Ma i pm, che hanno immediatamente annunciato l’impugnazione della sentenza, sono stati “frenati” dal procuratore Francesco Lo Voi, che ha affermato di voler leggere, prima di ogni decisione, le motivazioni alla sentenza.

Le accuse all’ex ministro, infatti, ripercorrevano l’intero scenario che i magistrati di Palermo hanno collocato dietro la trattativa: la necessità di raggiungere a una “tregua” con la mafia affinché cessasse di ammazzare uomini dello Stato e piazzare bombe, garantendo a Cosa Nostra interventi sul 41bis, il carcere duro.

Secondo i magistrati, dopo le condanne inflitte ai mafiosi nel Maxiprocesso, Mannino, temendo di essere ucciso, tentò di sancire un “accordo” con la mafia attraverso gli ufficiali del Ros Mario Mori e Antonio Subranni, e tramite il numero due del Sisde Bruno Contrada.

A questo scopo, l’ex ministro avrebbe esercitato pressioni su Francesco Di Maggio, al vertice dell’Amministrazione penitenziaria, affinché alleggerisse il carcere duro.

 

Le prove, però, risultano illusorie in quanto il mancato rinnovo del carcere duro fu deciso nel marzo del 1993 dall’allora ministro della Giustizia Giovanni Conso, che lo definì “una scelta personale”.

Quanto alla nomina di Nicola Mancino al Viminale al posto di Vincenzo Scotti l’imputato ha spiegato che la scelta ebbe origine da motivazioni politiche.

I pm non gli hanno creduto, il giudice sì.

Prosegue, intanto, davanti alla corte d’assise il processo agli altri imputati – ex ufficiali dell’arma, boss, pentito e Massimo Ciancimino – che, a differenza di Mannino, hanno scelto il rito ordinario e non l’abbreviato.

 

 

Valentina G.

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