I migranti spesso sono spinti da condizioni estreme nei loro Paesi d’origine: carestie, povertà, o persecuzione

immigratiA dispetto di quanti, semplicisticamente, vorrebbero bloccare gli approdi, i migranti giungono in Italia perché spinti da condizioni estreme nei loro Paesi d’origine: carestie, povertà, o persecuzioni.

Disposti a qualsiasi prezzo pur di fuggire da situazioni disumane, qualsiasi luogo è migliore di quello da cui muovono.

Nel corso degli ultimi vent’anni si riscontra in Italia una crescita di immigrazione relativa ai nuclei familiari che passa dai 235mila del 1991 ai quasi 2 milioni di oggi.

Di conseguenza, sono aumentati anche i minori: se all’inizio degli anni Novanta, questi erano poco più di 100mila, nel 2014 hanno raggiunto 1milione, la maggior parte dei quali nati in Italia.

I conflitti in Siria e in Iraq hanno provocato un aumento considerevole delle richieste d’asilo da parte dei migranti, da come emerge dall’ultimo rapporto dell’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR); il documento rivela che nella prima metà del 2014 il numero di persone in cerca di asilo nei Paesi industrializzati è continuato a salire tanto che queste richieste rischiano di essere le più numerose degli ultimi 20 anni.

Le domande da chi arriva dalla Siria sono aumentate più del doppio rispetto al 2013.

Dall’Iraq, dove quest’anno centinaia di migliaia di persone sono state costrette alla fuga, sono arrivate 21.300 richieste di asilo; seguono Afghanistan ed Eritrea.

Nella maggior parte dei casi si tratta di sfollati all’interno del proprio paese, oppure di rifugiati nei paesi confinanti alle zone di guerra.

 

I migranti negli ultimi 20 anni sono quasi decuplicati, ma è grazie a loro se riusciamo a colmare la voragine demografica dovuta al fatto che non facciamo più figli”. È quanto si evince dall’ indagine Community media research – questlab per la Stampa, dove si sottolinea che gli italiani sono più aperti verso gli stranieri, con il 52,9% degli intervistati che si dice moderatamente positivo verso i nuovi arrivati.

 

Da questi dati si evince che, mentre in passato l’immigrazione era spesso fondata su un progetto a breve termine, negli ultimi 20 anni essa è diventata stanziale: oggi, infatti la principale ragione di ingresso nel nostro Paese avviene per ricongiungimento familiare e non legato alla ricerca di lavoro.

 

Le migrazioni assumono il connotato di vero e proprio fenomeno negli Anni ’80 con l’afflusso crescente di popolazioni dai diversi sud del mondo. Nel 1991 il tasso di popolazione migrante in Italia era lo 0,9%, nell’arco di poco più di vent’anni è arrivato a toccare la soglia dell’8%. Come sempre, si tratta di un dato medio che nasconde situazioni molto diversificate: in alcuni comuni, soprattutto nelle realtà più produttive del Nord, tali soglie superano da tempo il 20%.

 

Le proiezioni per i prossimi anni prefigurano una presenza prossima all’11% (nel 2020, secondo l’Istat).

Il mercato del lavoro italiano è diventato irreversibilmente multietnico; a colpire è soprattutto il fatto che, anche negli anni più bui della recessione, gli occupati stranieri hanno continuato a crescere, dando corpo a quello strano binomio di un’immigrazione che cresce nonostante la stagnazione.

 

La magistratura italiana iniziò tuttavia a occuparsi di diritto dell’immigrazione solo a partire dal dicembre 1986, anche se il battesimo ufficiale avvenne nel 1998, anno in cui gli osservatori economici individuarono il superamento dell’economia degli immigrati rispetto a quella degli emigrati.

Nel 1986 venne emanata la legge n. 943, ovvero la prima legge parzialmente regolatrice del diritto dell’immigrazione, che entrò in vigore nell’anno successivo, producendo una sanatoria: questa legge regolarizzò il lavoro straniero, ma non disciplinò affatto i relativi flussi.

Con la legge n.39 del 28 febbraio 1990 – più conosciuta come “legge Martelli” (chiamata così dall’allora Ministro della Giustizia) – si cercò di adottare misure più incisive alle norme sull’immigrazione: questa legge conteneva due novità assolute, due colonne portanti ancora presenti nell’attuale diritto dell’immigrazione.

Vennero introdotti infatti:

–          il regime dei visti: prima di questa legge, le ammissioni avvenivano semplicemente esibendo il passaporto;

–           il regime delle quote di ingresso, secondo un piano di programmazione triennale: ovvero venivano stabilite delle quote annuali per lavoro dipendente (fatta eccezione per il lavoro di tipo dirigenziale, che rimase di fatto esente dalla politica delle quote).

Sull’onda delle numerose politiche europee di stop all’immigrazione adottate da Paesi quali la Francia, la Gran Bretagna, il Belgio e la Germania, anche l’Italia con questa legge cercò di uniformarsi nella regolamentazione dell’immigrazione.

 

L’Italia si è sempre caratterizzata per il tasso di emigrazione molto intenso, che ha portato allo spostamento di grandi flussi di cittadini italiani sia all’estero (soprattutto all’inizio del secolo scorso), che all’interno – principalmente dal sud al nord.

Così come all’interno dell’Europa si può individuare una differenziazione tra paesi del Nord e paesi mediterranei, in Italia si registra un profondo dualismo territoriale tra regioni del Nord e regioni del Mezzogiorno. Si pensi alle grandi ondate migratorie dall’Italia che hanno visto una partecipazione di molte regioni italiane, in particolare di quelle del Mezzogiorno o alla nuova immigrazione che – presente in tutto il paese – si concentra, soprattutto per la sua componente più stabile, nelle regioni del Nord.

Dal Mezzogiorno e dalle regioni del Triveneto sono partiti tra gli anni Cinquanta e gli anni Settanta milioni di persone verso le aree più ricche e industrializzate del paese.

 

Dopo la grande esperienza migratoria dei decenni a cavallo tra Ottocento e Novecento (la Grande Emigrazione) e la pausa rappresentata dagli anni del fascismo e della guerra, l’emigrazione dall’Italia riprende a metà degli anni Quaranta, con un difficile processo di ricerca di nuovi sbocchi migratori sia in direzione dei paesi transoceanici che in direzione dei paesi europei.

Definitivamente chiusa sin dagli anni Venti la tradizionale destinazione statunitense, per effetto del sistema delle quote in base alla nazionalità di origine, gli emigranti italiani si indirizzano verso i paesi del Sud America e l’Australia e verso destinazioni europee quali il Belgio; la “tragedia di Marcinelle”, con la morte di centinaia di italiani in una miniera di carbone, segnò la fine dell’emigrazione italiana in Belgio: una parte della popolazione immigrata in quella nazione si stabilizzerà, ma da allora non ci sarà più emigrazione di italiani verso zone minerarie.

A partire dalla seconda metà degli anni Cinquanta, la Germania e la Svizzera rappresentano le principali destinazioni: il flusso raggiungerà la sua massima espansione a metà degli anni Sessanta per poi declinare progressivamente e stabilizzarsi nel corso degli anni Settanta a livelli molto modesti .

 

L’analisi dell’esperienza degli italiani come emigranti in altre regioni o all’estero è di grande importanza per comprendere anche la situazione che vivono in Italia gli immigrati provenienti dai paesi del Terzo Mondo. Non si tratta di esperienze migratorie assolutamente uguali, in quanto troppe cose sono cambiate, ma esistono delle analogie a volte anche molto significative, sia per quanto riguarda la realtà degli immigrati sia per quanto riguarda le reazioni della società di accoglienza.

Per questo il confronto è di grande utilità.

La ricchezza dell’esperienza italiana permette dunque diversi ordini di confronti: non solo quello tra emigrazioni e immigrazioni, ma anche quella tra emigrazioni interne ed emigrazioni all’estero.

 

 

Valentina G.

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